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I turisti del vertice di Roma
03.11.2021, Finanza e fiscalità
La nuova aliquota fiscale minima globale dell’OCSE e del G20 distribuisce la ricchezza secondo la tradizione del mondo (post)coloniale: favorisce il Nord esacerbando le disuguaglianze planetarie.
I capi di governo dei Paesi del G20 hanno concluso il loro incontro lanciando monete nella Fontana di Trevi, un rito che quasi tutti i turisti che scoprono la Città Eterna compiono. E visti i risultati del vertice in termini di politica climatica e fiscale, oltre che di pandemia, si era tentati di credere che le persone più potenti del mondo non fossero fondamentalmente altro che turisti: persone poco desiderose di plasmare attivamente il mondo, ma mosse dall’ambizione di essere favorite qualora si tenti di arricchirsi a sue spese. Monete nella fontana allora!
“Why don’t you come on back to the war, don’t be a tourist”, dice una canzone di Leonard Cohen. Nel caso del vertice del G20 di Roma, la “guerra” - al di là della pandemia - sarebbe stata la lotta contro la crisi climatica e l'iniquo sistema di tassazione globale dei gruppi di imprese multinazionali. Poco prima della Conferenza sul clima di Glasgow iniziata questa settimana (COP26), il vertice sarebbe stato un'ottima occasione per iniziare a riflettere assieme, anche ai più alti livelli politici, a queste tre grandi sfide politiche globali contemporanee – ma ne eravamo ben lontani!
Riforma inutile della fiscalità delle imprese da parte dell'OCSE e del G20
Negoziata da più di 120 Paesi nel quadro dell'OCSE in assenza di molti Paesi africani, la riforma della fiscalità delle imprese, ormai approvata a Roma dai Paesi del G20 nei suoi punti essenziali, dimostra in modo esemplare che quello che viene celebrato come un “accordo storico” dal presidente americano Biden o dal cancelliere tedesco designato Scholz, e che viene presentato acriticamente come una “rivoluzione fiscale globale” da molti media - anche svizzeri - non è obiettivamente più di un'increspatura sull’acqua provocata dal lancio di una moneta.
In realtà, si tratta, da un lato della redistribuzione dei profitti dei gruppi aziendali dai Paesi sede ai Paesi mercato (pilastro 1) e, dall’altro, dell'introduzione di una tassa minima effettiva per le multinazionali (pilastro 2). La riforma BEPS 2.0 (“Base Erosion and Profit Shifting”, o erosione della base d’imposizione e trasferimento dei profitti) lascia molto a desiderare dal punto di vista della politica di sviluppo per due ragioni principali.
In primo luogo, l'intera industria estrattiva e il settore finanziario sono esclusi dal primo pilastro per ragioni tecniche. I Paesi poveri del Sud, che sono fortemente dipendenti dalle industrie estrattive, non avranno quindi diritti aggiuntivi per tassare i profitti di queste industrie. Inoltre, il primo pilastro ridistribuisce solo una piccolissima parte dei profitti, e solo nelle aziende con un fatturato annuo di 20 miliardi di dollari e un tasso di profitto superiore al 10%. A livello mondiale, solo un centinaio di aziende sono interessate; in Svizzera con ogni probabilità riguarda soltanto i giganti Novartis, Roche, Nestlé e Schindler. I principali beneficiari di questa ridistribuzione saranno i Paesi ricchi dotati di grandi mercati interni come gli Stati Uniti o la Germania.
In secondo luogo, l'aliquota fiscale minima del 15% prevista nel secondo pilastro è troppo bassa e può essere applicata unicamente dal Paese in cui ha sede la società interessata. E di nuovo solo a condizione che l'azienda abbia un fatturato annuo superiore a 750 milioni di euro.
I Paesi in via di sviluppo sono rimasti al palo
Secondo un calcolo degli economisti Petr Janský e Miroslav Palanský (2019), i Paesi a reddito medio-basso (“lower-middle-income countries”; che si trovano senza eccezione nell'emisfero Sud), perdono circa 30 miliardi di dollari di entrate fiscali all'anno a causa del trasferimento dei profitti delle multinazionali del Nord. Questi importi esorbitanti per i Paesi poveri sono di estrema importanza in termini di politica climatica: corrispondono a sei volte (e saranno ancora meno nella realtà) le risorse finanziarie promesse dalla comunità internazionale nel quadro del Fondo verde per il clima (GCF) per l'adattamento al cambiamento climatico nei Paesi in via di sviluppo dal 2020 al 2023. E il GCF non include nemmeno i finanziamenti delle perdite e dei danni (“Loss&Damage”), cioè i risarcimenti per perdite e danni (ad esempio, terreni, infrastrutture o biodiversità) già causati dalla crisi climatica, in particolare dalle tempeste. Analogamente, per colmare questo deficit di finanziamento, una migliore mobilitazione delle risorse finanziarie nazionali (“domestic revenue mobilization”) è indispensabile per i Paesi in via di sviluppo.
Oggi, la fiscalità internazionale delle imprese va in senso del tutto opposto rispetto a tale obiettivo. La recente riforma fiscale non cambierà nulla. Lo dimostrano i casi di evasione fiscale resi pubblici di recente riguardanti imprese come Socfin (commercio di olio di palma e di gomma), Glencore (petrolio, rame, carbone e altre materie prime) e Nestlé (prodotti alimentari), in cui il nostro Paese a bassa tassazione gioca sistematicamente un ruolo centrale. Mentre lo studio pubblicato in ottobre da Pain pour le prochain (Pane per tutti), Netzwerk Steuergerechtigkeit Deutschland (Rete tedesca per la giustizia fiscale) e Alliance Sud rivela che Socfin paga la maggior parte delle sue tasse a Friburgo, in Svizzera (anche se una parte importante delle sue attività si svolge nelle piantagioni in Sierra Leone, Liberia e Cambogia e il valore aggiunto è quindi generato anche in questi Paesi), l'esempio di Nestlé in Marocco sottolinea la necessità urgente di un’amministrazione fiscale nazionale forte: a causa di calcoli poco chiari sui prezzi di trasferimento, l'azienda tradizionalmente considerata svizzera rischia di dover pagare tasse arretrate record di 110 milioni di dollari. Questo non sarebbe stato possibile senza il controllo minuzioso delle autorità fiscali - ma sono proprio queste risorse che mancano a molti Paesi in via di sviluppo.
Rimane da sperare che nelle prossime due settimane i protagonisti chiave della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Glasgow non siano troppo influenzati dai turisti VIP di Roma e che agiscano piuttosto che fare una gita di piacere. Le principali richieste dal punto di vista della politica mondiale sono sul tavolo delle negoziazioni: i Paesi ricchi devono mettere a disposizione 100 miliardi di dollari all'anno per combattere la crisi climatica, come hanno promesso dieci anni fa, e compensare i Paesi poveri per i danni che hanno subito (“Loss&Damage”).