Intervista di Kristina Lanz, Andreas Missbach e Marco Fähndrich (pubblicata su «La Regione» il 6 ottobre 2022)
Fino a questa primavera sedeva ancora in Consiglio nazionale, da giugno è la nuova presidente di Helvetas. Cosa la entusiasma di più del suo nuovo ruolo?
Regula Rytz: il mondo è scosso da crisi. Mi preoccupano molto le conseguenze sociali, qui in Svizzera e soprattutto dove le persone da tempo devono lottare per sopravvivere o per avere un tetto sopra la testa. Helvetas apporta miglioramenti concreti: questo per me è più importante che mai.
Le mancherà qualcosa della vita politica quotidiana a Palazzo federale?
Il lavoro nelle commissioni, ovvero dove si cercano soluzioni con colleghi e colleghe di altri partiti. La crescente polarizzazione, invece, non mi mancherà affatto.
Ci sono Paesi del Sud del mondo con i quali ha un legame personale?
Mio marito da bambino è stato in Nepal con i suoi genitori, che lavoravano per l’organizzazione precedente alla Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC). Anche Helvetas, all’epoca, operava già sul posto. Io stessa ho avuto modo di visitare il Nepal tre volte e ho potuto vedere come la cooperazione allo sviluppo sia cambiata nel corso degli anni. In passato si investiva soprattutto in progetti infrastrutturali come le strade; oggi si promuove molto di più anche l’economia locale, ad esempio mediante la formazione professionale.
In futuro Helvetas si impegnerà maggiormente in ambito politico a livello nazionale?
Per questo c’è Alliance Sud, che fa un lavoro eccellente. Il nostro obiettivo primario rimane il lavoro sul campo: collaboriamo con la DSC e le autorità locali, ma anche con le ONG locali e con il settore privato. Oltre a ciò ha sempre fatto parte delle nostre attività sensibilizzare la popolazione svizzera sulle interrelazioni globali e chiedere una maggiore coerenza delle politiche.
Lei siede anche nel consiglio di fondazione della “Fondation Gobat pour la Paix”. Cosa può insegnarci oggi Albert Gobat, dimenticato premio Nobel per la pace ed ex membro del governo nel Canton Berna?
Albert Gobat creò l’Unione interparlamentare prima della Prima guerra mondiale con l’obiettivo di riunire persone di tutti i Paesi e di tutti i partiti e di evitare in tal modo una spirale di violenza. Questo ci dimostra che ci sono sempre persone che cercano un modo per risolvere i conflitti in modo pacifico e costruttivo. Ne abbiamo bisogno oggi più che mai. Tra l’altro, Gobat proveniva dal partito liberale e può essere un modello anche per il PLR odierno.
Intende per l’attuale ministro degli esteri e presidente della Confederazione Ignazio Cassis? A sentire lui, sembra che la Svizzera sia una delle migliori al mondo...
Dipende da qual è la Svizzera di cui stiamo parlando. Trovo notevole la grande solidarietà che la popolazione ha mostrato effettuando donazioni e ospitando i profughi ucraini. Anche la politica non è rimasta a guardare: la Confederazione ha aderito alle sanzioni e ha già fornito oltre 100 milioni di franchi per l’aiuto umanitario. Naturalmente si potrebbe e si dovrebbe fare di più, soprattutto nell’attuazione delle sanzioni. Anche la Conferenza di Lugano per la ricostruzione dell’Ucraina è stata un segnale positivo. Ma ora la Svizzera dovrebbe partecipare attivamente alla piattaforma europea per la ricostruzione.
Il ministro Cassis ha saltato la conferenza internazionale contro la crisi della fame che si è tenuta a Berlino a giugno: c’è il rischio che altre crisi, come quella alimentare o quella climatica, vengano dimenticate?
L’attenzione dell’opinione pubblica è concentrata sulla guerra in Ucraina perché ha una dimensione globale e coinvolge una potenza nucleare, certo. Ma la crisi della fame e la crisi climatica non possono essere trascurate nella loro drammaticità. Le persone da noi sono sempre più consapevoli che tutto è connesso. Secondo uno studio del Politecnico federale di Zurigo, la maggioranza della popolazione ritiene che la cooperazione internazionale debba essere ampliata. Porta stabilità e prospettive per il futuro.
La gente è solidale, ma non il Parlamento, che vuole aumentare in modo significativo le spese per l’esercito. Nei prossimi anni, a causa del freno all’indebitamento, ciò potrebbe portare a misure di risparmio nell’ambito della cooperazione internazionale. Cosa può fare la società civile?
Le sfide finanziarie sono grandi perché le crisi si sovrappongono. Il nostro compito è dimostrare che in questa situazione la cooperazione allo sviluppo dovrebbe essere rafforzata e non indebolita. Se non facciamo abbastanza per lottare contro la povertà e la fame nel mondo, i costi che ne deriveranno saranno enormi. Non dimentichiamo che la Svizzera non ha ancora raggiunto l’obiettivo dello 0,7% di aiuto pubblico allo sviluppo rispetto al reddito nazionale lordo.
L’anno prossimo si terranno le elezioni federali. I temi globali potranno giocarvi un ruolo?
Spero e mi aspetto che i partiti tematizzino i rischi globali, perché riguardano tutti noi. La pandemia di Covid-19 ce l’ha mostrato chiaramente. Oggi viviamo in un mondo altamente interconnesso in cui non è più possibile prescindere dal rafforzamento delle pari opportunità globali.
Secondo lei quali sono attualmente le maggiori sfide della cooperazione internazionale?
A causa dell’accumularsi di conflitti violenti e di eventi climatici estremi – basti pensare al Pakistan – l’aiuto umanitario è al momento molto richiesto. Salva vite umane e garantisce i bisogni primari delle persone nel breve periodo. Ma allo stesso tempo, non si possono trascurare la cooperazione allo sviluppo e la promozione della pace a lungo termine. Poiché solo con esse sono possibili prospettive sostenibili e opportunità eque per tutti, in modo che le persone possano liberarsi dalla povertà. Helvetas funge da anello di congiunzione tra questi livelli: nei campi profughi, ad esempio, non forniamo solo aiuti d’emergenza, ma anche possibilità di formazione.
Si critica spesso il fatto che la cooperazione allo sviluppo dei cosiddetti “white saviours” (salvatori bianchi) perpetui modelli postcoloniali. Vale anche per la Svizzera?
La critica non riguarda tanto la Svizzera quanto le grandi organizzazioni internazionali. La cooperazione svizzera allo sviluppo è radicata nel territorio. Anche Helvetas lavora da sempre a stretto contatto con i partner locali e la popolazione.
Ma non si potrebbe informare meglio riguardo all’importante collaborazione con le organizzazioni locali?
Naturalmente. Tuttavia mostriamo già oggi con trasparenza quali sono i risultati del nostro lavoro e quanto sia centrale la popolazione locale per raggiungerli.
Cosa ne pensa della collaborazione con il settore privato? Si tratta piuttosto di un’opportunità o di un rischio?
Questo aspetto è sempre stato un punto forte della cooperazione svizzera allo sviluppo. In molti Paesi abbiamo fatto ottime esperienze con la promozione delle piccole e medie imprese e delle catene del valore locali. L’importante sono le regole del gioco: se tutte le aziende rispettano le norme di diritto del lavoro e dell’ambiente, anche le ingiustizie si ridurranno. Le imprese internazionali, in particolare, hanno un’enorme influenza in questo campo.
E che ruolo ha la politica in questo?
Per la popolazione è ovvio che le aziende svizzere debbano rispettare gli standard ambientali e i diritti umani anche all’estero. La discussione in merito all’iniziativa per multinazionali responsabili l’ha dimostrato. Se il Consiglio federale prende sul serio le sue promesse, la Svizzera deve finalmente rafforzare le leggi in materia.
L’Agenda 2030, con i suoi obiettivi di sviluppo sostenibile, ha avuto finora un impatto limitato: in Svizzera è poco conosciuta e sempre più spesso viene strumentalizzata dalle aziende per il greenwashing. Dovremmo forse concentrarci piuttosto sulla realizzazione di singoli obiettivi?
Per coinvolgere le persone di solito ci vogliono temi concreti. Pertanto, ha certamente senso evidenziare i singoli obiettivi. Se per esempio altri Paesi non sono più in grado di fornire cibo a sufficienza a causa della crisi climatica, diventa un problema anche per noi in Svizzera. La soluzione sta nel collegare le politiche alimentari globali e nazionali.
E come possiamo fare in modo che la Svizzera si assuma maggiori responsabilità nella politica climatica estera?
Dobbiamo mostrare quanto siano grandi la nostra impronta ecologica e l’influenza della nostra piazza finanziaria e del commercio di materie prime. Purtroppo, molte conseguenze negative non si possono più evitare. La Svizzera deve sostenere meglio i Paesi più poveri nelle misure di protezione e adattamento. Ciò non può essere realizzato senza ulteriori possibilità di finanziamento.
Le crisi di oggi sono un’opportunità per il nostro lavoro?
Paradossalmente, è così: la crescente visibilità dei problemi può portare a una maggiore disponibilità ad agire. Quando all’improvviso le catene di approvvigionamento vacillano, quando mancano prodotti alimentari e c’è penuria di energia, c’è solo una via d’uscita: più cooperazione, giustizia ed eque opportunità. Mostrare e spiegare chiaramente ciò che la cooperazione allo sviluppo può realizzare è l’imperativo del momento.
Tuttavia, la maggior parte delle persone in Svizzera è più preoccupata per la propria pensione o per l’aumento dei costi sanitari che per la situazione in Africa orientale...
La nostra qualità di vita dipende anche da come stanno le persone nei Paesi più poveri. Un mondo in cui molte persone sono perdenti è un mondo scomodo. Un mondo in cui molte persone non hanno più nulla da perdere è un mondo pericoloso. Da storica, so che è soprattutto in tempi di crisi che spesso si ricorre alla violenza. È dunque ancora più importante la solidarietà internazionale: è il prerequisito per la pace e la stabilità.
E cosa dice ai giovani che hanno perso ogni speranza?
Io sono cresciuta in tempi di guerra fredda: quando avevo 20 anni, mi aspettavo una guerra nucleare ogni giorno; questo mi ha spinto a impegnarmi politicamente. Lo so per esperienza: l’impegno tenace paga e ci sono molti sviluppi positivi.