Signor Zürcher, cosa significa vivere in un contesto fragile?
Quando sono stato in Afghanistan nel 2017 per la mia ricerca, la mia vita in quanto straniero era in netto contrasto con la realtà di vita della popolazione. Venivo portato in giro in un SUV blindato, non avevo praticamente accesso alla popolazione locale e, nel migliore dei casi, dialogavo con il mondo politico. La vita quotidiana della gente del posto è segnata da povertà, violenza, paura dell’arbitrio e corruzione. Pertanto, l’orizzonte temporale è a breve termine e le possibilità di pianificazione delle persone sono molto limitate. La domanda su cosa coltivare in campo la stagione successiva o se i bambini debbano andare a scuola difficilmente può trovare risposta in contesti fragili a causa dell’incertezza generale.
Qualche mese fa, ha condotto uno studio sull’efficacia della cooperazione internazionale negli Stati fragili. Cosa l’ha sorpresa maggiormente?
La constatazione principale che la cooperazione internazionale non è riuscita a trasformare i Paesi fragili non mi ha sorpreso. Coincide con i risultati di numerosi altri studi. Per contro, la reazione ai risultati dello studio, che nel frattempo ho presentato più volte, continua a sorprendermi. Ogni volta che presento lo studio, ci sono persone in sala che contestano le evidenze e segnalano singoli progetti che invece hanno avuto successo. È comprensibile, perché i nostri risultati mettono in discussione l’idea stessa dell’efficacia dei loro anni di lavoro. Ma l’immunità di fronte all’evidenza è sorprendentemente alta.
Lei critica il fatto che la cooperazione internazionale non sia riuscita a trasformare i Paesi fragili. Questo “fallimento” non è dovuto semplicemente all’obiettivo troppo ambizioso?
L’idea che si possa trasformare un Paese come l’Afghanistan in una Danimarca con strumenti di cooperazione internazionale è ingenua. Il problema principale è che, dopo 20 anni di lavoro in Afghanistan, lo sapevamo e abbiamo continuato comunque come prima. Mi auguro che si discuta onestamente di ciò che la cooperazione internazionale può o non può ottenere e in quali contesti. Ci è consentito commettere errori, ma dobbiamo anche trarne le dovute conclusioni.
E cosa ha da dire il mondo scientifico al riguardo?
Il nostro studio ha dimostrato che gli investimenti nell’istruzione, nella sanità e nello sviluppo rurale, come il sostegno a favore delle strutture agricole, hanno un certo successo e sono apprezzati dalla popolazione locale. Tuttavia, è stato anche dimostrato che i progressi compiuti possono essere vanificati in breve tempo a causa della situazione politica, economica e sociale. Ma questo non significa che non si debba fornire alcun sostegno.
Lei esige una discussione onesta su nuove strategie in contesti fragili, a partire dal riconoscimento che la cooperazione allo sviluppo non è uno strumento efficace per stabilizzare uno Stato fragile. Quali sono, invece, gli strumenti efficaci?
In sostanza, si tratta di capire quali strumenti funzionano in un determinato contesto e quali no. Credo sia moralmente accettabile decidere di non avviare progetti di democratizzazione e buon governo in contesti fragili, bensì di investire risorse nell’aiuto umanitario e nella promozione della resilienza. I progetti orientati alle persone che non mirano alla grande trasformazione del Paese risultano efficaci.
È riuscito a individuare differenze tra i vari Paesi donatori?
Questo non era l’oggetto del nostro studio. Ma la mia ipotesi è che i Paesi donatori più piccoli e neutrali perseguano meno interessi politici con la loro CI e siano anche più umili. In contesti fragili, ad esempio, la Svizzera mira ad alleviare le difficoltà e le sofferenze umane, a rafforzare la resilienza, a proteggere i diritti umani e a promuovere la pace. Credo che sia realistico mirare a ottenere tali obiettivi con la cooperazione internazionale. Per contro, la stabilizzazione di un Paese è un processo politico e non può essere realizzata con la sola CI classica.
Negli Stati fragili, quale importanza riveste per la CI la cooperazione diretta con la società civile?
La cooperazione diretta con il governo è spesso inopportuna o inefficace negli Stati fragili. È per questo che la cooperazione con le organizzazioni della società civile locale e soprattutto con le comunità locali può essere particolarmente rilevante. Anche se questi programmi portano raramente a una maggiore sicurezza o legittimità del governo, spesso contribuiscono a migliorare le condizioni di vita in questi contesti difficili.
Si sente di frequente la critica secondo la quale i fondi per lo sviluppo non fanno altro che sostenere i regimi negli Stati autoritari e a mantenerli al potere più a lungo. Vi sono evidenze scientifiche in merito?
In questa critica, è essenziale distinguere quale CI viene prestata. Naturalmente, nel caso dell’aiuto budgetario diretto, questa critica è giustificata. Tuttavia, molti Paesi donatori si astengono dal fornire aiuti budgetari nei Paesi autoritari e fragili. In altri ambiti, il nesso non è osservabile. Non vedo alcuna evidenza che i regimi autoritari siano sostenuti dall’aiuto umanitario e dai progetti di resilienza. Non esiste un nesso provato tra la stabilità del regime e il numero di persone che muoiono di fame. E anche se ci fosse un nesso, l’imperativo morale sarebbe quello di aiutare le persone.
In Paesi come l’Afghanistan, dove la situazione umanitaria attualmente è catastrofica, sempre più organizzazioni si stanno ritirando. Supponiamo che possa progettare nel Paese il programma nazionale di un’agenzia di sviluppo: come investirebbe il denaro per ottenere la massima efficacia?
Di principio, affronterei la questione con molta umiltà, orientandomi alla popolazione del Paese e pianificando programmi su base locale. Punterei sugli investimenti in progetti infrastrutturali minori, sullo sviluppo della resilienza, sull’aiuto umanitario, sui progetti sanitari ed educativi nonché sulla promozione dell’informazione e dei media. Metterei in chiaro fin dall’inizio che ho intenzione di essere presente a lungo termine e realizzerei i progetti in modo partecipativo. Sarebbe una CI a lungo termine, tenace, che agisce in piccoli contesti, orientata alle persone e senza aspirazioni di trasformazione. Inoltre, di tanto in tanto è necessario valutare se i progetti e i programmi sono ancora adatti alle condizioni quadro o se, ad esempio, si può cooperare maggiormente con il governo rispetto a prima. I partenariati a lungo termine e la flessibilità nell’attuazione dovrebbero costituire i punti cardine della CI.
L’efficacia della cooperazione internazionale non viene già sufficientemente misurata?
Di norma, i progetti di cooperazione internazionale vengono valutati regolarmente. Ma il potenziale della misurazione dell’efficacia, cioè la valutazione dei risultati che i progetti e i programmi hanno raggiunto anche al di fuori dei loro obiettivi, è tutt’altro che sfruttato al massimo. In quest’ottica occorre ampliare la cooperazione con la comunità scientifica.
Ci sono ambiti della cooperazione internazionale per cui l’efficacia è difficile da misurare?
Sì, ci sono. Questi includono, ad esempio, progetti di promozione dei media e di capacity building. In tali progetti si investe molto denaro, ma l’efficacia è difficile da misurare. Non è un caso che i progetti di salute e nutrizione producano risultati chiari, perché sono facili da misurare. Al contrario è difficile, ad esempio, misurare l’efficacia di due anni di formazione per i dipendenti pubblici afghani del ministero delle Finanze, ma ciò non significa che non possa essere efficace.
Esistono soglie oltre le quali non ha più senso concentrarsi sulla misurazione dell’efficacia?
No, non credo. In ogni contesto e in ogni progetto ha senso sapere cosa funziona e cosa no.
Che aspetto avrebbe una CI basata solo su studi di efficacia e prove scientifiche?
Questi aspetti da soli non bastano. Oltre agli studi sull’efficacia e alle prove scientifiche, la pianificazione di progetti e programmi dovrebbe tenere conto anche della probabilità di successo o di fallimento. Nel complesso, ciò renderebbe la cooperazione internazionale più umile, più partecipativa e più a lungo termine. Poiché anche con progetti finanziariamente modesti si possono raggiungere molte persone.
Intervista pubblicata da laRegione il 24. novembre 2023