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« Come può una proprietà possederne un’altra? »
22.06.2021, Cooperazione internazionale
Tra il 2016 e il 2019, in due villaggi masai nel nord della Tanzania, è stato condotto il progetto di ricerca pratica WOLTS focalizzato sulle interazioni tra l’estrazione mineraria, la pastorizia e i diritti fondiari delle donne.
Mundarara, un piccolo villaggio di meno di 5’000 abitanti rannicchiato tra colline verdeggianti, è raggiungibile unicamente tramite una strada in terra battuta, interminabile e accidentata, lungo la quale si possono scorgere giraffe, antilopi e struzzi. Da questa strada, è possibile vedere anche degli uomini masai che indossano ampi abiti rossi e tengono in una mano il bastone per guidare le mucche e nell’altra un telefonino portatile; oppure si possono osservare delle donne agghindate con gioielli che trasportano legna sulla testa; o ancora una miniera di rubini di media importanza dove, nei materiali di scavo, numerose donne cercano delle piccole pietre preziose. Durante la mia prima visita al villaggio, il nostro gruppo viene accolto da uno dei capi del posto, un uomo di mezza età grande e corpulento. Nel suo ufficio, una capanna d’argilla e paglia con alcune sedie traballanti, un tavolo e alcune foglie ingiallite sul muro, ci accoglie con una stretta di mano e uno sguardo malizioso. Dopo avergli spiegato il nostro approccio, poniamo a lui e ad alcuni altri anziani del villaggio presenti, alcune domande preliminari sullo sfruttamento minerario e i diritti fondiari nel villaggio. Quando poi gli chiedo se le donne sono autorizzate a possedere delle terre, mi risponde indignato in lingua masai: «Come può una proprietà possederne un’altra?».
La sua domanda riassume perfettamente la situazione di numerose donne masai: esse sono considerate come una proprietà degli uomini – prima da parte del loro padre e poi, dopo il loro matrimonio, da parte del marito. Qualsiasi tipo di possesso (bestiame, casa o terreno) è escluso. I Masai sono una delle etnie più patriarcali dell’Africa. Qui la poligamia è la regola. Le mutilazioni genitali e i matrimoni infantili sono ancora molto diffusi, malgrado le proibizioni legali. Le storie di numerose donne con le quali ci intratteniamo sono simili: praticamente nessuna di loro ha terminato la scuola elementare, le loro giornate di lavoro sono lunghe e massacranti (andare a cercare l’acqua e la legna per riscaldare, mungere le mucche, ecc.). I soldi che guadagnano vendendo dei gioielli, della legna da ardere o, più recentemente, degli scarti provenienti dalle miniere, spesso bastano a malapena per sopravvivere, tanto più che molti uomini non provvedono ai bisogni della loro famiglia.
Una fatica improba
Una discussione di gruppo con delle seconde spose mi è rimasta particolarmente impressa nella memoria. Immaginavo d’incontrare un gruppo di donne d’una certa età, mentre invece siamo stati accolti da tre ragazze tra i 14 e i 16 anni. Due di loro erano già in uno stato di gravidanza molto avanzato. Queste giovani ci hanno spiegato perché si ritenevano fortunate a essere delle seconde spose: «Abbiamo compassione per quelle donne che non hanno nessun’altra sposa a casa, perché hanno ancor più lavoro da fare. Il duro lavoro inizia col matrimonio. Quando si è a casa con la propria madre, si può dirle che si è stanche e che ci si vuol riposare. Ma una volta sposate, è il marito che ha tutto il potere e non si osa confessargli la propria stanchezza. Altrimenti ci picchia». (Citato in Daley, E., e altri, (2018). Gender, Land and Mining in Pastoralist Tanzania, p. 43).
Per la maggioranza delle donne masai la violenza fa parte della quotidianità. L’estrazione mineraria l’ha esacerbata in diversi modi, poiché ormai molte persone dall’esterno vengono nei villaggi a cercare pietre preziose. Nei due villaggi, sentiamo regolarmente parlare di stupri e addirittura d’omicidi, che rimangono impuniti. Molte donne si sentono abbandonate dal loro marito e dagli uomini incaricati d’amministrare i villaggi, e non è raro che la vittima stessa sia ritenuta responsabile d’uno stupro.
Il mutamento dei ruoli
Malgrado ci siano tante storie dolorose, a più riprese veniamo anche a sapere di fatti positivi, di storie di cambiamento. Ed è soprattutto nel corso del nostro lavoro che ne veniamo a conoscenza. Sulla base d’una ricerca approfondita, proponiamo una serie di workshop scaglionati su due anni: si tratta di riunioni informative giuridiche concrete sui diritti fondiari, l’estrazione mineraria e l’uguaglianza dei sessi, nonché di discussioni interattive e di giochi di ruolo.
Durante queste riunioni, le donne si siedono dapprima in un angolo, gli uomini in un altro. Le donne parlano poco e se osano comunque esprimersi, sono sempre smentite dagli uomini presenti. Mi domandano spesso come si svolgono le faccende quotidiane nella mia famiglia. Sono io a prendere tutte le decisioni a casa mia? Queste discussioni sono molto interessanti poiché, anche da noi, le cose sono ben lungi dall’essere perfette: dico loro che nel nostro Paese le donne hanno il diritto di voto solo da 50 anni, che prima dovevano avere il permesso del loro marito per poter lavorare e che, ancora oggi, è difficile conciliare lavoro e famiglia. Il sessismo e la violenza fanno pure parte della quotidianità di numerose donne nel nostro Paese.
Le discussioni dimostrano che i ruoli destinati agli uomini e alle donne evolvono anche per i Masai. Numerose coppie d’una certa età si sono sposate a seguito della «prenotazione» di figlie che stanno per nascere (un uomo dà a una donna incinta un anello affinché la creatura che sta per venire al mondo, se è una bambina, gli sia riservata come futura sposa). Diversi giovani masai parlano d’un più grande numero di cosiddetti matrimoni d’amore. Questi ultimi rimangono spesso monogami e sono caratterizzati da una cooperazione molto più marcata delle coppie sposate. La divisione del lavoro evolve anche a seguito dell’estrazione mineraria, del cambiamento climatico e di altri fattori; le donne svolgono sempre più compiti «tradizionalmente» maschili, come far pascolare le mucche, ma senza abbandonare le mansioni «tradizionalmente» femminili, come andare a cercare la legna e l’acqua. Anche in questo caso, si possono intravvedere dei paralleli con la Svizzera, dove le donne entrano sempre di più a far parte di ambiti maschili «tradizionali», sia nella vita professionale che in quella politica, guadagnando però spesso molto meno e assumendo sempre una buona parte dei compiti d’assistenza e di cura.
L’intenzione non è quella di cambiare la cultura dei Masai, né d’imporre loro la nostra, bensì di mostrare che i ruoli e le relazioni tra i generi evolvono – sia nei Masai che in Occidente – e che tutti dobbiamo impegnarci per modellare e sostenere questo cambiamento. Un partecipante, uomo, l’ha espresso in modo preciso dicendo: «Possiamo sempre essere dei Masai e perpetuare le nostre tradizioni, ma alcune di queste sono nefaste e dobbiamo cambiarle».
Per saperne di più sul progetto WOLTS, consultare.
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