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La povertà è strutturale

07.12.2021, Agenda 2030

Sami Tchak, scrittore togolese, nei suoi libri scrive del Continente africano e i Paesi dell'America Latina, trat-tando temi quali la lotta alla povertà, la schiavitù moderna e la prostituzione. Intervista di Lavinia Sommaruga.

La povertà è strutturale

Sami Tchak, Pseudonym von Sadamba Tcha-Koura (1960), ist ein togolesischer Schriftsteller, der an der Universität von Lomé Philosophie studiert hat.
© Francesco Gattoni

Global: Lei è l’autore di uno degli articoli che compongono il volume “Africana. Raccontare il continente al di là degli stereotipi”, curato nel 2021 da Chiara Piaggio (Feltrinelli editore). Nel suo contributo, lei riflette sul legame tra lingua e letteratura e le sue osservazioni riguardano un tema centrale del rapporto tra l'Europa e il continente africano, quello della colonizzazione. Può parlarcene?

Sami Tchak: Nella mia riflessione, parto dall'idea che, in generale, le letterature sono nate in seno ai popoli con la lingua dominante o con una delle lingue di quel popolo. Le letterature africane, come le conosciamo ora, sono sviluppate piuttosto con le lingue europee, la lingua del colonizzatore. Esistono naturalmente scritti in lingua africana, ma sono meno conosciuti a livello internazionale e anche nazionale. Il problema che potrebbe sorgere è che le nostre letterature rimangano un po’ troppo orientate “verso l’estero” e non sufficientemente radicate a livello locale.

Possiamo dire, allora, che il passato coloniale è il tratto unificante del continente africano, così diverso al suo interno?

Il passato coloniale non è l'elemento che unisce le tradizioni africane perché queste civiltà, queste società e queste lingue hanno avuto rapporti tra loro molto prima dell'arrivo dei colonizzatori. Ciò che unisce le diversità è ciò che possiamo chiamare la loro spiritualità. Le credenze, la relazione dei vivi con i morti, ad esempio, si assomigliano. Possiamo parlare di un’unità culturale spirituale di un continente molto variegato. Nei miei romanzi ho dato conto di ciò. Questo elemento lo si ritrova anche in un altro contesto post-coloniale, quello dell’America Latina. Per esempio, nel romanzo «Al Capone le Malien», parlo dell'antico impero del Mali, che aveva logiche simili proprio a quelle degli antichi regni di tutto il continente africano, quindi anche prima che il colonialismo diventasse un “nuovo” elemento comune. O meglio, l'elemento comune di questi Stati cosiddetti coloniali o post-coloniali è la stessa logica occidentale che è stata loro imposta.

Lei ha visitato l'America Latina: ci sono punti in comune con il passato coloniale africano?

Sì, i primi punti in comune sono tutte le popolazioni africane che sono arrivate su questo territorio, anche attraverso la schiavitù. Hanno mantenuto elementi di cultura che provengono dal continente africano. Anche se non parlano più le lingue d’origine, hanno conservato tradizioni e religioni come il Voodoo e il Candomblé. Inoltre, negli Stati dell’America Latina troviamo una somiglianza con i problemi vissuti dagli Stati africani, come per esempio le dittature.

Quali temi pensa che dovrebbero essere prioritari nell'agenda di una ONG di lobbying e advocacy come Alliance Sud, che lavora da 50 anni a favore dei più poveri del Sud?

Si tratta di una questione molto delicata. Molto spesso, quando parliamo dei più poveri del Sud, non integriamo la loro situazione in un quadro sistemico. La povertà è prodotta dal modo in cui il mondo è organizzato, e continuerà – qualsiasi siano i nostri sforzi – se non c'è un cambiamento nella società. Ma il cambiamento non è in vista, perché il sistema capitalista, come funziona attualmente, accentua queste disuguaglianze e quindi la povertà. Tuttavia, ciò non significa che non dobbiamo agire. In uno dei miei libri ho scritto che le persone che combattono la povertà assomigliano spesso a qualcuno che prende un ventaglio per arginare un uragano. Può sembrare ridicolo a qualcuno che guarda dall’esterno. Tuttavia, è perché ci sono persone che pensano di sconfiggere l'uragano con un ventaglio che il mondo potrà cambiare.

Solo con cambiamenti strutturali, quindi?

Non è necessariamente aiutando direttamente i poveri che potremo portare dei cambiamenti. È chiaro che dobbiamo farlo, è urgente! Ma la vera lotta consiste nel convincere i Paesi occidentali a cambiare le loro relazioni con i Paesi africani, per esempio. È necessaria più giustizia nelle relazioni.

Le associazioni, le ONG, le fondazioni dispongono dei mezzi per fare pressione sugli Stati (sia occidentali che africani) affinché ci sia un cambiamento globale?

Non lo so. Finché il sistema non cambia, genererà povertà perché la povertà è necessaria al sistema. Sopravvive così com'è ora perché ci sono dei poveri. Possiamo vedere che si sta sviluppando in tutto il mondo quello che io chiamo "manodopera usa e getta". È un'espressione usata per esempio in Colombia – ne parlo in uno dei miei romanzi intitolato «Filles du Mexique»: si riferisce a persone povere, schiave, che sono anche intercambiabili, cioè possono venire da qualsiasi parte del mondo per essere sfruttate ovunque. I nuovi poveri sono persino disposti a pagare per essere sfruttati. Quando le persone pagano per attraversare il mare, pagano per venire ed essere schiavi! Ad un certo punto, se le relazioni tra gli Stati non cambiano, gli sforzi per affrontare i problemi identificati non saranno sufficienti; è davvero nelle politiche nazionali e internazionali, nella geopolitica mondiale, che dovrebbero cambiare le cose.

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